“Vi chiedo perdono per le persone della Chiesa che non vi hanno visto, che si sono girate dall’altra parte”. Papa Francesco ha accolto con queste parole, nell’Aula Paolo VI, migliaia di senza fissa dimora giunti a Roma da ogni angolo d’Europa per partecipare al “Giubileo dei clochard”. L’evento, organizzato dall’associazione francese “Fratello”, nata nel 2014 per aiutare anche nella crescita spirituale le persone in grave situazione di precarietà e senza alloggio, si conclude oggi con la celebrazione del vescovo di Roma nella Basilica di San Pietro. La “tre giorni” è iniziata venerdì con l’udienza del Santo Padre, la visita alla capitale e la Via Crucis.

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Sabato, poi, c’è stato l’incontro di grandi testimoni della fede e la sera, nella Basilica di San Paolo fuori le mura, la Veglia di preghiera presieduta il cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione. Il Pontefice ha ringraziato i senzatetto per l’esempio di solidarietà che offrono al mondo. “Saper dare la mano a chi soffre più di me – ha affermato – la capacità di essere solidali è uno dei frutti della povertà. Chi è ricco se ne dimentica, perché è abituato ad avere tutto”. Poche ore prima, nell’omelia a Santa Marta, aveva chiarito che l’amore cristiano non è quello delle telenovelas, né tantomeno “soft”, ma un amore concreto, come “concreta è la presenza di Dio”. Chi vive una carità che non si incarna e resta solo teorica è portato spesso a pensar male degli altri.

E così si considerano i “barboni” come dei fannulloni, sporchi, parassiti senza speranza, oppure pazzi, ubriaconi e tossicodipendenti; gente che ha scelto volontariamente la propria condizione. Ma non è questa la realtà dei fatti: la maggior parte di loro vorrebbe avere un’abitazione e un lavoro stabile, desidererebbe vivere normalmente, relazionarsi con gli altri. Generalmente si tratta di persone con una vita traumatica che per qualche motivo hanno interrotto i rapporti col coniuge, i genitori, i figli. Sono anche nomadi, extracomunitari, disadattati. Alcuni, dopo anni di reclusione in carcere o in ospedali psichiatrici, si ritrovano senza casa né alcun mezzo di sostentamento. Altri, i cosiddetti nuovi poveri, hanno perso il lavoro o sono stati sfrattati.

Sono diversissime le tipologie e le problematiche che riguardano i tanti “invisibili” che popolano stazioni ferroviarie, pontili, sagrati delle chiese e mense gratuite. Diventano improvvisamente “famosi” solo quando inciampiamo loro addosso lungo il marciapiede o quando disturbano il decoro delle nostre belle piazze. Ci troviamo dinanzi a una moltitudine di uomini e donne, socialmente borderline, private di un’identità precisa, senza uno status civile riconosciuto e poste ai margini, spesso nella solitudine. Individui costretti quotidianamente ad affrontare la fame, il freddo, l’assenza di lavoro, lo sfruttamento in nero… fino ad arrivare ai tanti pregiudizi se non addirittura agli insulti e alle percosse.

Talvolta la collettività studia addirittura dei sistemi per permettere l’allontanamento – dalle zone più importanti e prestigiose della città – di quelle tante persone sole e disperate alla ricerca di qualche briciola che cada dalle mense dei più abbienti, nell’assurda speranza che il non vederle e il relegarle altrove possa risolvere il problema. Loro non protesteranno, non organizzeranno manifestazioni e non faranno valere i “poteri forti”, appannaggio delle solite élite che pensano solo a mantenere i loro privilegi e maxistipendi. Ma un mondo che mette al centro il denaro e non l’essere umano è destinato inevitabilmente alla rovina.

Per tale ragione è necessario raccogliere tutte le risorse per costruire una nuova società, più solidale e inclusiva, educando e sensibilizzando i giovani a non diventare egoisti e razzisti. Gli adulti dovrebbero essere i primi a recarsi nelle mense dei poveri e nei centri di accoglienza, dando così l’esempio e soprattutto imparando a condividere con chi non ha nulla. A questi nostri fratelli più disagiati andrebbero dati i posti d’onore, in un’autentica gara di solidarietà. A loro bisognerebbe chiedere perdono ogni giorno perché noi siamo la concausa della loro miseria.

Articolo di don Aldo pubblicato sul quotidiano Corriere Adriatico.