Un genocidio che ha inaugurato “il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso”. Una tragedia costata la vita a un milione e mezzo di persone uccise in nome di un terribile progetto di pulizia etnico-religiosa. Sono queste le parole forti che Papa Francesco ha pronunciato all’inizio del suo viaggio apostolico in Armenia, un’intensa tre giorni, che si conclude oggi al monastero di Khor Virap. Jeorge Mario Bergoglio non intende fare sconti: in questa, come in altre occasioni, ha chiamato il male per nome usando più volte la parola genocidio, senza mediocri compromessi, nonostante che la Turchia ancora non riconosca l’eccidio perpetrato in Anatolia dall’Impero Ottomano tra il 1915 e il 1916.

Il termine, infatti, non era contenuto nel testo originario del discorso consegnato ai giornalisti, ma il Pontefice l’ha voluto utilizzare lo stesso, anche se l’anno scorso aver detto “genocidio” durante una celebrazione in Vaticano provocò un’escalation diplomatica con tanto di richiamo dell’ambasciatore turco presso la Santa Sede. Dinanzi al capo dello Stato e al corpo diplomatico dell’Armenia ha ripercorso gli esiti nefasti “cui condussero nel secolo scorso l’odio, il pregiudizio e lo sfrenato desiderio di dominio”, a partire dal Metz Yeghérn, il “Grande Male”, che ha funestato la regione caucasica mentre “le grandi potenze guardavano da un’altra parte”. In quella che è considerata la più antica nazione cristiana della storia, ha auspicato che “l’umanità sappia trarre da quelle tragiche esperienze l’insegnamento ad agire con responsabilità e saggezza per prevenire i pericoli di ricadere in tali orrori”.

Durante la Messa celebrata ieri nella città di Gyumri – totalmente ricostruita dopo il devastante terremoto del 1988 – ha indicato alcuni fondamenti su cui costruire la vita cristiana: memoria, fede e amore misericordioso. Ha spiegato che la fede “perde la sua forza trasformante, la sua bellezza vivace, la sua positiva apertura verso tutti” se viene rinchiusa negli archivi della storia o considerata “un bel libro di miniature da conservare in un museo”. L’amore concreto è la “roccia”, il “biglietto da visita” del credente, la forza capace di ricostruire vie di comunione, edificare ponti di unione, superare le barriere di separazione, invitare alla collaborazione nel rispetto reciproco e nel dialogo. Ciò che più caratterizza il cristiano è la capacità di perdonare, perché la giustizia che sperimentiamo su questa terra è fragile e può subire gli egoismi umani. Solo il perdono risana le ferite dei cuori e ristabilisce in profondità i rapporti tra persone e popoli che sembrano irreparabilmente compromessi. Occorrono tanta umiltà e coraggio per incamminarsi in questo itinerario, ma si tratta di una scelta obbligata per chi desidera che la concordia e il vero bene regnino in ogni luogo.

Articolo di don Aldo pubblicato domenica 26 giugno 2016 sul Corriere Adriatico.