Nell’antica Grecia era la tracotanza ad accecare chi scambiava la vana gloria per autentica responsabilità. Quando si spegne la luce della condivisione anche la politica diventa selvaggia rincorsa al mero tornaconto e alla sterile visibilità. Nei millenni, per far conoscere il volto di un governante occorreva effigiarlo sulle monete, oggi basta un’ora senza un feedback sui social per marcare un panico da vuoto comunicativo. Una sovraesposizione autolesionistica toglie autorevolezza e persino sacralità a qualunque potere, inflazionandone l’immagine e la parola. La caratura di un leader era sempre stata direttamente proporzionale ai suoi silenzi, alle sue ponderate riflessioni. Lincoln cambiò la storia del suo Paese con un discorso, Churchill vinse la guerra con due cartelle di appello radiofonico alla nazione.
Giovanni Paolo II contribuì alla caduta del muro di Berlino portando testimonianza invece di parole perché, come ama ripetere l’attuale Pontefice, San Francesco raccomandava ai suoi frati: “Predicate il Vangelo, se serve anche con le parole”. E poi non dimentichiamo che nostro Signore non lasciò scritto di suo pugno neppure un rigo, gli altri lo raccontarono citandolo, l’unica volta che lo videro scrivere qualcosa fu sulla sabbia senza che nessuno leggesse. E il quadro più famoso della storia universale, la Gioconda, ritrae un sorriso enigmatico al quale generazioni di uomini hanno cercato di attribuire un significato. Non tutto ciò che ha valore può essere espresso a parole. Verbalizzare la profondità equivale a negarne l’ineffabile mistero.
L’attuale overdose di parole ottiene l’effetto contrario a quello sperato. Tutti parlano, molti urlano, altri minacciano, pochi […]